Progetto RadaM della Diaconia Valdese

Progetto RadaM della Diaconia Valdese

Spazi sicuri dove ricominciare: la storia di Luna

Quando Luna arrivò nell’appartamento del progetto RadaM, aveva con sé solo una valigia. Camminava piano, si vedeva che era disorientata e frastornata. Salutò con un filo di voce, ma furono i suoi occhi a parlare davvero: portavano un’ombra profonda, un dolore che nessun linguaggio avrebbe potuto contenere.

Chi aveva segnalato il suo caso ci aveva già preparati. Sapevamo che, pochi giorni prima, Luna aveva ricevuto la notizia più terribile che una madre possa immaginare: suo figlio, ancora minorenne, era morto in un incidente stradale in America Latina, dove viveva temporaneamente affidato alla zia. La notizia era arrivata come un fulmine, ma il destino non aveva ancora finito di colpirla. Pochi giorni dopo, infatti, anche sua madre, rimasta in Africa, era deceduta a causa di una malattia aggressiva.

Quando Luna entrò nella sua nuova casa, non disse nulla. Si fermò nella sua camera — che, data la situazione eccezionale, le avevamo assegnato ad uso esclusivo — e iniziò a riporre i suoi vestiti negli armadi, in silenzio.

Nei giorni successivi, il team del progetto Radam fece piccoli passi insieme a lei. Le mostrò gli spazi comuni, la accompagnò tra le varie procedure burocratiche, passò spesso a salutarla e a scambiare due parole. A volte Luna parlava, ma quasi sempre preferiva ascoltare. Era come se stesse imparando di nuovo a stare al mondo.

Dopo circa un mese, una mattina l’educatrice trovò nella sua camera un frigorifero personale (non consentito dal regolamento, che vieta di tenere alimenti e apparecchiature simili nelle stanze). Quando cercò di spiegarle che sarebbe stato necessario rimuoverlo, Luna si arrabbiò molto e si rifiutò fermamente. Continuava a ripetere: «È tutto quello che ho… Non lo porterò mai via».

La sua reazione lasciò tutti molto sorpresi, ma fu allora che comprendemmo qualcosa di più profondo: per lei quel frigorifero non era un semplice oggetto, ma il luogo in cui aveva riposto ciò che le restava del suo attaccamento alla vita, dopo aver perso in così poco tempo le due persone a lei più care.

Fu allora che capimmo quanto quella casa, così semplice, potesse significare. Non era solo un tetto: era uno spazio dove il dolore poteva essere accolto senza essere giudicato, dove la solitudine trovava una pausa, dove la vita – con una lentezza quasi impercettibile – iniziava a rimettere radici.

La sua storia non è una di quelle che “finiscono bene” in modo semplice. Le ferite restano, e il dolore ha imparato a convivere con lei. Ma Luna ha trovato un luogo dove non deve affrontarlo da sola. Un luogo che non cancella ciò che ha perduto, ma le permette di immaginare ciò che può ancora costruire.

E forse è proprio questo il cuore dell’accoglienza: non offrire soluzioni miracolose, ma creare spazi sicuri dove le persone possano ricominciare a respirare, un giorno alla volta.

19 dicembre 2025, Staff Servizi Inclusione - Milano